Ciao ti passo un po’ di hangar notizie:
Hangar chiude il 22 dicembre! con la tombola e la lezione di storia dell’arte di Pier Luigi Doro e riaprirà a gennaio il 9 o il 10! Giovedì 19 finalmente parliamo
di nuovo di astrologia ad hangar. Venite!
Questa volta la NiusLatter non la scrivo io ma mio nonno, Alfredo, che era del 1906, cancro, che racconta alla sorella di sua moglie la presa di Firenze e la sua liberazione durante la seconda guerra mondiale.
Ascoltate
Se potete
NiusLatter #39 Firenze 30 maggio 1945
Carissima Rina,
Immaginiamo quanto sia stata grande la vostra trepidazione per la nostra sorte quando la valanga della guerra ci ha investiti e quanto sia grande oggi che ci sapete tutti in salvo la vostra curiosità di conoscere come abbiamo vissuto quei giorni infernali.
E’ difficile oggi, a distanza di tempo, ricostruire tutti gli avvenimenti di quei giorni, come è difficile comprendere la nostra reazione ad essi se non si voglia considerare quanto il progressivo rincrudimento dei fatti bellici, nel cui gloco ci sentivamo Ineluttabilmente presi, ci rendesse sempre più incoscienti del pericolo sovrastante, fino ad essere indifferenti ai più terribili avvenimenti e alla morte stessa.
Mi rifaccio al tempo in cui potemmo darti le nostre ultime notizie, prima dell’emergenza.
La vita in città andò smorzandosi gradatamente negli ultimi giorni di giugno, subito dopo che i tedeschi portarono via gli Impiegati dagli uffici ferroviarl.
La maggior parte degli uomini aveva paura e stava nascosta. La città sempre più si spopolava, le vetrine si vuotavano del poco che era rimasto, tutto veniva nascosto.
Gli allarmi aerei non venivano dati più. Le grandi formazioni da bombardamento ormai non si facevano più vedere: solo i cacciabombardieri, in formazioni di quattro ciascuno, continuamente ronzavano sulla testa per tuffarsi ogni poco a mitragliare e spezzonare gli obbiettivi bellici specialmente alla periferia, ma qualche volta anche in città.
Le batterie contraeree sparavano furiosamente.
Io non limitai mai i miei passi e girai sempre tranquillamente. Avevo molto da fare per liquidare e salvare il salvabile dell’attrezzatura del Dopolavoro, insieme ad altri colleghi incaricati, dalle rapine almeno dei civili se non si poteva evitare quelle delle forze armate. Le truppe in ritirata facevano razzie di ogni genere e in grande stile e anche gli altri, tenevano bordone e finivano di prendere quello che iprimi lasciavano.
Ormai eravamo senza luce e noi, che come i più ci servivamo di quella per cucinare, a mezzo del fornellino elettrico, per far da mangiare dovemmo ricorrere a un sistema ingegnoso di ripiego. Costruìi una stufettina da applicarsi sul fornello che poteva essere alimentata a legna di cui ne avevo un poco, avanzata per previdenza dall’inverno scorso. Con quella, accendendola una volta al giorno, andai avanti quasi tre mesi e poi, finita le legna, l’alimentai con la carta che raccoglievo dovunque fino a che ritornò, dopo tanti mesi la luce e, finalmente (22 febbraio 1945) il gas.
Un giorno cominciò l’assalto della folla alle riserve al carbone della ferrovia. Ai ponti di Via Statuto era un formicolio di carri, carretti, carrettini, una fiumana di gente con sacchi a spalla e via: anche le suore, come formiche nere, sudate e sporche arraffavano a piene mani. Finiti il carbone si dettero a smantellare le travese di legno dei binari. Per giorni e giorni durò il triste spettacolo ed io non ebbi il coraggio di avvicinarmi tanto mi repugnava.
Ormai gli avvenimenti precipitavano. Un altro giorno fu dato l’ordine alla popolazione di sgombrare in poche ore tutta la zona cittadina adiacente all’Arno e alle strade di accesso ai ponti.
Si vide una fiumana, come un esodo biblico, venire dalle nostre parti in cerca di un asilo provvisorio, trasportando masserizie e quant’altro fosse possibile trasportare con ogni mezzo, portandosi dietro malati e infermi su carretti e barelle.
E pensare che tanti avevano lasciato da poco la periferia per il centro ritenendosi più sicuri.
Intanto il problema dell’acqua era assillante. L’acquedotto non funzionava più per la mancanza dell’energia elettrica. (Poi fu danneggiato dalle esplosioni e interrotto presso i ponti demoliti).
Molte case nei nostri dintorni avevano dei pozzi in giardino dove si faceva code di ore pompando a turno. Molti andavano ad attingere alla vasca della fortezza dove era però un putridume. Noi per gli usi igienici andavamo alla galleria del Pellegrino, sulla strada ferrata, distante quasi due chilometri, ove si avvicendava una folla enorme. Per bere c’era qualche pozzo buono dove occorreva due ore di coda per averne un fiasco. Andavamo anche ai pozzi della collina poiché ormai si poteva scorrazzare liberamente nei campi. Sullo sfondo della collina, verso le antenne della radio, già si vedevano arrivare i colpi dei grossi calibri e i proiettili passavano fischiando sulle nostre teste. Eppure, dato il bisogno, noi andavamo da quelle parti in cerca di frutta di cui c’era abbondanza data l’annata eccezionale, e a buon mercato.
Io, come dicevo, non mi riguardai mai dal girare. Ma un giorno uscii fuori e vidi le strade completamente deserte: c’era un silenzio sinistro: uno dalla finestra mi bisbigliò che avevano messo il bando che confinava tutta la popolazione in casa. Rientrai precipitosamente. Il secondo giorno il bando fu corretto nel senso che soltanto le donne potevano uscire per provvedere ai bisogni alimentari e per l’acqua. Da allora e per tanti giorni, noi
uomini stemmo rintanati e le donne in giro per le occorrenze in uno strano spettacolo di città da matriarcato. Non potevamo affacciarci alle finestre a scanso di prenderci una fucilata.
Io accudivo il mio fornellino e facevo prendere sole ad Alberto sul balcone interno. La notte barricavano il portone dello stabile con grosse travi perché i tedeschi venivano a fare sorprese per razziare biciclette ed altri oggetti di valore. Al nostro portone però non si presentarono mai.
Un pomeriggio vedemmo tutti
gli uomini delle case di faccia, di là dal cortile, scappare attraverso i giardini e venire nelle nostre case. I tedeschi stavano perquisendo tutte le case di Via Oriani in cerca di armi e gli uomini scappavano per paura di essere deportati. Poi vennero nella nostra via. I coinquilini si rifugiarono in casa mia pronti a nascondersi in soffitta, ma la nostra porta fu risparmiata. Si vede che non volevano fare sul serio se no nessuno di noi poteva sfuggire.
In quei giorni, però, corremmo un grave pericolo di cui abbiamo saputo dopo. Dalle finestre della nostra via veniva sparato sui tedeschi da un franco tiratore. Un Ufficiale tedesco allora avvisò il prete della nostra Parrocchia che se quello non smetteva avrebbero fatto saltare tutte le case della nostra strade. Fortunatamente la mediazione del Sacerdote ebbe l’effetto desiderato.
(Continua…)
La parlata